Festival del Cinema Vintage, torna a Roma il 7 ed 8 Novembre

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Si tiene a Roma il 7 e l’8 novembre 2015 al Cinema Trevi (vicolo del Puttarello, 25), a ingresso gratuito fino ad esaurimento posti, la Quarta edizione del Festival di Cinema vintageIl gusto della memoria,” rassegna di film ispirati alle immagini d’archivio il cui tema di quest’anno è “La Storia dal Basso”. Attraverso le immagini presenti sull’archivio Nos Archives (che custodisce in full HD 25mila filmati realizzati tra il 1922 ed il 1984 girati in formato ridotto 8mm, 9,5mm, 16mm, 17,5mm e Super8) registi, studenti di scuole di cinema, studenti dei licei raccontano la Storia da un punto di vista alternativo a quello ufficiale.

Diretto dalla montatrice e regista Cecilia Pagliarani e dall’artista Manuel Kleidman, il festival ha ottenuto quest’anno il patrocinio della Commissione Nazionale Italiana per l’Unesco e avrà come presidente di giuria il regista Pupi Avati. La giuria è anche formata da Roger Odin, professore emerito di Scienze dell’informazione e della comunicazione all’Università Paris III Sorbonne Nouvelle; Marco Giusticritico cinematografico, saggista, autore televisivo e regista; Enrico BufaliniDirettore dell’Archivio Storico dell’Istituto LuceManuel Kleidman, decoratore di teatro, creatore di marionette e carri teatrali, pittore, incisore su legno e bronzo, collezionista ed esperto in arte palestinese; Anaïs la Rocca, regista e art director e  Alessio Santoni, fonico e tecnico del suono. Per il secondo anno consecutivo sarà di scena il contest Junior, dedicato a agli studenti under 18 delle scuole medie e superiori, che dovranno presentare una storia anche inventata utilizzando i materiali cinematografici realizzati dal 1922 al 1970, presenti in nosarchives.com e nell’archivio dell’Istituto Luce

Programmazione

Sabato 7 novembre sarà proiettato, tra gli altri, il documentario di Alessandro Piva, Pasta Nera, che, attraverso rari filmati e fotografie d’archivio, racconta uno dei migliori esempi di solidarietà tra Nord e Sud del nostro Paese, nell’immediato Dopoguerra. Domenica 8 novembre, invece, due proiezioni  accompagneranno i film in concorso: un film inedito ritrovato dai direttori del festival, firmato da Carlo Ludovico Bragaglia e il documentario di Gianni Amelio e Cecilia Pagliarani, Registro di classe, che attraverso immagini d’archivio, racconta la scuola italiana dal 1900 al 1960.
Il contest del festival è articolato in tre sezioni: Fiction, per cortometraggi della durata massima di 12 minuti; Documentari, per opere di reportage o di docufiction della durata massima di 30 minuti e infine la sezione Pubblicità, dedicata a spot pubblicitari per prodotti attuali o vintage, della durata massima di 45 secondi. Tutti i lavori contengono almeno il 60% di immagini d’archivio.

Il 2015 è l’anno dei grandi anniversari: il centenario dell’ingresso italiano nella Grande Guerra, i 70 anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, ma anche i 50 anni dalla prima passeggiata spaziale e i 40 dalla nascita di Microsoft. Che documenti ci faranno rivivere questi eventi? La storia ufficiale ci offrirà sicuramente bellissimi film e approfondimenti. Ma cosa sappiamo degli uomini in trincea nel 1917? Come si viveva a Roma nel 1945? Chi ricorda i colori delle divise dei nazisti a passeggio per le città italiane? E quante limonate sono state consumate ascoltando la radiocronaca della prima passeggiata lunare? La Storia ora si può raccontare anche grazie alle immagini che i privati hanno lasciato in custodia a nosarchives.com, foto e filmini amatoriali, sottolinea la direzione artistica.

Il festival, fondato e diretto dalla montatrice e regista Cecilia Pagliarani e dall’artista Manuel Kleidman è organizzato dall’Associazione per la salvaguardia della memoria filmica amatoriale Come Eravamo, in collaborazione con l’archivio di cinema amatoriale nosarchives.com. Un evento unico, ispirato dall’opera di salvaguardia della memoria dell’archivio nosarchives, che possiede, restaura e digitalizza secondo i più innovati dispositivi dagherrotipi, negativi su vetro, diapositive, Polaroid, filmini familiari e di viaggi e di fatto costituisce il primo archivio mondiale di video ed immagini amatoriali. Il portale ospita più di 25mila filmati e un innumerevole repertorio di immagini che hanno fatto la Storia del Ventesimo secolo.

fattura matrimonio

Se non ti presenti al matrimonio paghi la fattura

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Non sono poche le spose a cui l’organizzazione del matrimonio rischia di sfuggire di mano per un’eccessiva ansia di perfezione, ma in questo caso a lasciarsi andare un po’ troppo è stata la coppia di sposi dopo le nozze.

Anziché godersi il coronamento della propria felicità tra gli amici più cari o preparare la valigia per il viaggio di nozze, ha pensato bene di spedire una vera e propria fattura di rimborso a due amici (ma diremmo ex-amici, a questo punto) che non si sono presentati al ricevimento dopo aver dato conferma della loro presenza.

Potremmo dire molte cose sulla mancanza di educazione dei due invitati che non si sono premurati di avvisare per la loro assenza, ma quello che ci lascia a dir poco basiti è la fredda rabbia che deve aver mosso i due sposini per compilare e spedire, con tanto di richiesta di spiegazioni e danaro, la fattura con l’importo per i due pasti preparati, pagati e sprecati.

I matrimoni sono faccende costose e non poco spinose, lo sappiamo bene, ma che potessero essere anche occasione per la fine di un’amicizia in termini tanto spiacevoli, non lo avremmo mai immaginato.

Gli sposi e le loro famiglie sostengono costi esagerati per organizzare ricevimenti principeschi (ma in fondo alla coscienza dovrebbe emergere forte e chiaro il famoso detto “chi è causa del suo mal…”) ma ciò autorizza una coppia di sposi che si suppone immersa in un brodo di giuggiole di felicità ad inviarti una fattura così astiosa? Gravissima la colpa, senza appello la condanna per non essersi presentati alla celebrazione della loro gioia.

Gli sposi incriminati di tanta scortesia hanno spedito a Jessica Barker e consorte la sgradevole missiva contenente il conto del ristorante e una rude richiesta di spiegazioni. Spiegazione che Jessica ha dato pubblicamente a Kare 11 che l’ha intervistata: lei e il marito hanno dovuto rinunciare all’ultimo momento per via della non disponibilità della baby sitter che si prendesse cura dei bambini per la notte. Bambini che, secondo l’invito, non erano ammessi alle nozze.

Photo Credits | KARE 11 Facebook

Fiat, la lotta operaia contro le tute bianche

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Non esistono più tute blu nelle fabbriche della Fca. Da tempo sono state sostituite da quelle bianche, un cambio voluto dallo stessa dirigenza diversi anni fa.

Gli operai non hanno mai apprezzato la novità e le operaie ancor meno. A scatenare la battaglia sono state proprio le lavoratrice dello stabilimento Fiat di Melfi. Da giorni, infatti, nel sito lucano si discute sul problema delle tute che sembrano essere troppo bianche, motivo per cui molto spesso le donne si ritrovano i pantaloni macchiati di sangue durante il ciclo mestruale.

Come membro del coordinamento donne del sindacato ho ascoltato le lamentele delle mie colleghe e mi sono data da fare. In fabbrica accadono troppi episodi incresciosi del genere, in ogni reparto. Una situazione imbarazzante. Quando si verifica non sappiamo dove andare, visto che non possiamo tornare a casa. Abbiamo dieci minuti di tempo di pausa, ma non ce la facciamo mica ad andare in bagno tutte le volte, dove si accumula la coda delle colleghe, queste le parole di Pina Imbrenda, delegata Fiom nello stabilimento che ha iniziato a raccogliere le firme.

Circa cinquanta i casi simili raccolti dal sindacato nelle ultime settimane: lavoratrici costrette a rientrare in casa a causa della divisa macchiata, o altre colleghe rimaste chiuse in bagno con i pantaloni macchiati in condizioni di estremo disagio. Tutto questo è amplificato dalla posizione lavorativa “Noi facciamo i metalmeccanici, stiamo tutto il giorno in posizioni assurde – spiega l’operaia Pina dopo il turno di notte – perché lavoriamo dentro le macchine, facciamo un lavoro con il corpo piegato dentro le scocche. Diventa facile sporcarsi quando hai il ciclo mestruale. E così scatta un senso di umiliazione. Tutti in fabbrica lo vengono a sapere, qualcuno dei colleghi maschi fa anche il commento stupido tra le auto in fila. Tutto per colpa del pantalone chiaro. Per questo abbiamo deciso di agire cominciando a raccogliere firme per chiedere di cambiare il colore della divisa. Basta, non ce la facciamo più”.

La raccolta firme comprende attualmente la firma di circa 400 operaie (in azienda sono all’incirca 600 donne con contratto a tempo indeterminato su un totale di 8mila dipendenti) che hanno lasciato il loro numero identificativo aziendale, un segnale forte.

Le firme raccolte sono state spedite alla dirigenza dell’azienda Fca di Melfi che lo scorso venerdì ha affrontato il problema durante la commissione con tutte le sigle sindacali. La soluzione è arrivata ed è stata esposta in un comunicato della Fismic nella bacheca aziendale: “Da gennaio in arrivo una culotte da indossare sotto la tuta, per le donne alle prese con indisposizione mestruale”. Una scelta che non è stata condivisa dalle protagoniste di questa vicenda, che hanno paragonata la soluzione alla consegna di un pannolino.

Purtroppo la richiesta comporta una spesa rilevante, in quanto cambiare il colore della tuta comporterebbe adottare tale provvedimento per tutte le sedi dell’azienda. Ma i lavoratori si dicono convinti a risolvere la vicenda.

Su questa storia si sta cominciando a ricamare un po’ troppo. I lavoratori hanno visto questa richiesta delle loro colleghe come un modo per rivendicare una non dovuta esigenza di maggiore spazio. Quella tuta bianca è stata il frutto di una campagna di marketing, ma se l’azienda ascoltasse le esigenze delle sue dipendenti, penso che realizzerebbe una campagna comunicativa ancora più incisiva” – il commento di Roberta Laviano dalla segreteria regionale Uilm.

Foto | video melfi youtube

Svetlana Aleksievič, il premio Nobel per la Letteratura 2015

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Svetlana Aleksievic ha vinto il Premio Nobel per Letteratura 2015. Giornalista bielorussa che ha dedicato la sua vita al racconto dei principali avvenimenti dell’Unione Sovietica,  è stata costretta a lasciare il suo Paese perché accusata dal regime di Aleksandr Lukašenko di collaborare con la CIA.

Preghiera per CernobylRagazzi di zinco, Tempo di seconda mano. La vita in Russia dopo il crollo del comunismo sono i libri più importanti di Aleksievic pubblicati in Italia. La scrittrice era la favorita secondo le quote del sito inglese di scommesse Ladbrokes.

Nata nel 1948 in Ucraina da padre bielorusso e madre ucraina, Aleksievic  si è trasferita da piccola con la famiglia in Bielorussia. Dopo i primi lavori come giornalista in diversi giornali locali, ha collaborato come corrispondente per la rivista Neman a Minsk.Attraverso gli occhi della popolazione, ha raccontato gli eventi più drammatici avvenuti in Bielorussia dopo il secondo conflitto mondiale  e si è dedicata a molti fatti storici, più attuali. Perseguitata dal regime si è trasferita a Parigi. Dal 2011 vive nel suo Paese, ma non le è permesso pubblicare alcun testo.

Foto | Svetlana Aleksievic pagina facebook

i sogni finiscono

I sogni finiscono a 29 anni, dice la scienza

i sogni finiscono

Soglia ultima per sognare 29 anni: lo dice la scienza che ha decretato che i sogni finiscono a quell’età, quando si ha la percezione di essere entrati definitivamente nella fase adulta della propria vita ed è il momento di accantonare le fantasie e vivere la realtà concreta.

Sulle prime la notizia ci lascia incredule e stupefatte, com’è possibile che esista un’età limite entro cui abbandonare i propri sogni, dire addio ai propri desideri e semplicemente rassegnarsi? I sogni non si esauriscono mai, le fantasie nutrono la vita, ci fanno tendere sempre verso il miglioramento. È ancora così, non ci allarmiamo troppo.

È vero però che ad un certo punto, crescendo, avvertiamo sempre di più la pressione della società e delle sue convenzioni che ci trascina in molti casi verso scelte che non sempre corrispondono ai nostri veri desideri. Quante volte ci ritroviamo in una situazione che è stata più determinata dalle circostanze che davvero voluta?

Una ricerca firmata da Beagle Street Life Insurance ha messo nero su bianco questa realtà, che ci piaccia o no. Si tratta di una età media, s’intende, e di una percezione diffusa più che di una verità assoluta.

Sono state intervistate 2000 persone britanniche dai 18 anni in su a cui è stato chiesto non solo di definire quando hanno cominciato a sentirsi davvero adulti ma anche di spiegare perché. Il 64% degli intervistati ha detto che acquistare una casa è un chiaro segno dell’essere adulti. A seguire, tra le motivazioni più diffuse c’è avere un bambino, ma anche sposarsi o andare a vivere da soli. L’età media emersa da questa indagine è stata 29 anni.

Prima di sentirsi definitivamente adulti, prima di dover fronteggiare le difficoltà concrete della vita quotidiana e le proprie responsabilità, viviamo ancora una fase ricca di possibilità aperte, quando fantasticare sul seguito della nostra vita lascia spazio a qualunque speculazione. Una volta che si intraprendono i primi passi verso quello che viene percepito come “crescere” i sogni si restringono e fanno i conti con la quotidianità.

Photo Credits | BlueSkyImage / Shutterstock.com

fumee indoor smoker padiglione israele expo 2015

Presentato il fumee indoor smoker al Padiglione Israele di Expo 2015

fumee indoor smoker padiglione israele expo 2015

Al Padiglione Israele di Expo 2015 è stata presentata una delle novità più interessanti per portare in casa propria una tradizione culinaria antichissima, la preparazione dei cibi affumicati. Si chiama fumee indoor smoker ed è un attrezzo ideato da Asaf Dahan.

L’oggetto dalla silhouette elegante ha reso portatile la possibilità di affumicare il cibo direttamente in cucina, senza rendere la casa puzzolente, senza riempire la stanza di fumo e odori. Ma con tutto il gusto di una pietanza cucinata secondo tradizione. Ancora una volta Israele dimostra di saper coniugare con successo tradizione e innovazione.

È stato presentato ufficialmente al Padiglione Israele nei giorni scorsi con una dimostrazione che potete vedere anche in video. All’interno dello strumento, realizzato in ceramica smaltata, si posizionano gli alimenti da cuocere che trattengono tutte le fragranze, i sapori e gli aromi naturali del cibo, senza disperderli nell’ambiente.

La qualità del cibo non viene compromessa, la cottura è naturale ma più rapida di quanto non si pensi, basta appena mezz’ora. La cucina resta pulita perché non si ha fuoriuscita di liquidi di cottura, vapore o odori vari grazie al tappo ermetico, una delle due parti di ceramica dell’oggetto.

All’interno c’è una struttura metallica che dà stabilità e consente di appoggiare il cibo in modo che in fase di cottura conservi tutti gli aromi che si sprigionano dagli alimenti mentre grassi e scarti finiscono sul fondo. Così si cucina anche in modo più sano.

Il design si ispira alle stoviglie tradizionali medio-orientali mentre le dimensioni sono compatte per offrire uno strumento agile da usare nelle nostre cucine moderne, direttamente sul fornello. La sua capienza però non ne soffre, è capace di cucinare per 6 persone. Si può usare, a seconda degli alimenti da cuocere, per un tempo che va dai 30 minuti alle 4 ore.

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anti-rape cloak abito anti stupro

Anti-Rape Cloak, l’abito anti-stupro

Anti-Rape Cloak

Il dibattito sulla donna oggetto, sulla sessualizzazione del corpo e sul messaggio che la comunicazione trasmette servendosene è più vivo che mai e l’ultima provocazione arriva dall’artista britannica Sarah Maple che ha presentato Anti-Rape Cloak, praticamente un abito anti-stupro.

Si tratta di un mantello nero, ampio e informe, con tanto di nome scritto a grandi lettere su fondo rosso proprio davanti. Lo scopo è quello di servirsi della satira per rispondere a chi ritiene che la scelta degli abiti da indossare possa avere una qualunque responsabilità sul terribile atto di violenza.

Sarah Maple non è nuova alle provocazioni, la sua produzione artistica ha spesso puntato ad accendere il dibattito intorno al corpo della donna e spiega con le sue stesse parole le intenzioni della nuova creazione:

“Mi ha sempre fatto molto arrabbiare l’idea che le donne vittime di stupro possano sentirsi in qualche modo responsabili per ciò che hanno deciso di indossare. Molte donne che conosco ci sono passate e non hanno mai denunciato, sono convinte che non sarebbero state credute. Leggendo Everyday Sexism di Laura Bates mi sono resa conto di quanto questo sentimento sia diffuso – a quante ragazze è stato detto che non sarebbe successo se non avessero indossato quella minigonna o se non avessero frequentato un certo posto.”

L’obiettivo dell’artista, fotogrando in giro per il mondo il suo Anti-Rape Cloak, è quello di incentivare il dibattito sull’eccesso di sessualizzazione delle donne e sull’idea della donna oggetto. E continua, dichiarando a Huffington Post:

“Raramente le donne vengono incoraggiate ad essere sexy. Dai media arriva continuamente un messaggio che punta sulla sessualità femminile ma se poi le donne si vestono in modo provocante, allora significa che se la cercano. È una contraddizione che mi fa infuriare. È ridicolo pensare che un po’ di carne esposta renda gli uomini animali senza controllo. È un’idea che svilisce sia gli uomini che le donne!”

Max Mara Art Prize for Women, annunciate le cinque finaliste

MaxMaraArtPrize

La Whitechapel Gallery, Collezione Maramotti e Max Mara hanno annunciato i nomi delle cinque artiste finaliste del sesto Max Mara Art Prize for Women durante un evento speciale che si è tenuto nella sede storica di Max Mara a Reggio Emilia, lo scorso 4 ottobre 2015. Le artiste finaliste sono Ruth Ewan, Ana Genovés, Emma Hart, Tania Kovats e Phoebe Unwin.

Le finaliste, che hanno realizzato installazioni, sculture e dipinti, sono state selezionate da una giuria presieduta da Iwona Blazwick OBE, Direttrice della Whitechapel Gallery, e composta da Fiona Bradley, Direttrice della Fruitmarket Gallery di Edinburgo; Sarah Elson, collezionista e fondatrice di Launch Pad, che commissiona e sostiene artiste emergenti; Helen Sumpter, critica e giornalista di Art Review; Alison Wilding, artista e membro della Royal Academy.

Il Max Mara Art Prize for Women è stato istituito da Whitechapel Gallery e Max Mara Fashion Group nel 2005.  La  finalità è la promozione e valorizzazione di artiste che operano nel Regno Unito e non hanno ancora esposto le loro opere in una mostra antologica personale. E’ l’unico premio di arti visive di questo genere nel Regno Unito.

Alla vincitrice, il cui nome sarà annunciato agli inizi del 2016, verrà assegnato un periodo di residenza di sei mesi in Italia, organizzato specificamente in base alla sua pratica e ricerca artistica. Nel 2017, il lavoro della vincitrice sarà presentato in un’importante mostra personale alla Whitechapel Gallery e successivamente alla Collezione Maramotti in Italia.

Le artiste finaliste del Max Mara Art Prize for Women 2015-17 :

Ruth Ewan (n. 1980, Aberdeen)
La pratica artistica di Ewan comprende installazioni, materiale stampato ed eventi. I suoi campi d’interesse sono connessi a storie radicali, politiche e utopiche, da cui attinge tramite un’attenta ricerca e collaborazioni con gruppi diversi – storici, archeologi, orticultori, musicisti, maghi e fornai. Per la sua mostra del 2015 Back to the Fields al Camden Arts Centre di Londra, ha creato una visualizzazione di vita vera del ‘Calendario repubblicano francese’, in un’importante installazione che comprendeva flora e fauna, animali vivi e una tana di lontra di dimensione reale. Dopo la rivoluzione francese, il calendario fu sviluppato su commissione statale da artisti francesi, rinominando i giorni e i mesi dell’anno in relazione agli elementi del mondo naturale, nel tentativo di liberare la Francia da influenze religiose e monarchiche.

Ana Genovés (n. 1969, Madrid)
Genovés impiega fotografie di costruzioni pubbliche, ostacoli e servizi raccolti online, offline e durante i suoi viaggi come referenze per il suo lavoro. Interessata in particolar modo a oggetti e spazi trascurati,  l’artista li ripropone in opere che sottolineano la natura incerta della netta geometria del mondo che ci circonda. La sua recente mostra presso la Standpoint Gallery di Londra ha presentato una selezione di opere site-specific, tra cui Concrete stage and partition wall (2014) che seguendo le particolarità architettoniche della galleria – dal pavimento rialzato di un ex ufficio alle finte pareti – provocava un’ambigua relazione tra lo spettatore e lo spazio stesso.

Emma Hart (n. 1974, Londra)
Hart combina ceramica, video, fotografia e suono. Si interessa al modo in cui le esperienze reali vengono erroneamente rappresentate, quando sono catturate dalla macchina fotografica, veicolando ansie, imbarazzi e autobiografia nel proprio lavoro. L’artista allestisce fotografie e proiezioni video su forme grezze di argilla o impiega cermiche in scala maggiore rispetto alle dimensioni reali all’interno di accurate installazioni che saturano i sensi. Giving It All That (2014), la sua opera più recente per la Folkestone Triennial, è stata installata in un appartamento in disuso, con l’intento di sottoporre il visitatore a diverse forme di pressione sociale. In uno spazio connotato da versamenti e sudore, lunghi arti rosa offrono recipienti d’argilla su vassoi decorati con fotografie raccapriccianti, mentre occhi riflessi su blocknote in ceramica controllano la stanza.

Tania Kovats (n. 1966, Brighton)
Kovats realizza sculture, installazioni su larga scala e opere basate sul tempo che esplorano la nostra comprensione del paesaggio e il modo in cui relazioniamo ad esso. Conosciuta per le sue grandi opere negli spazi pubblici, ha prodotto la prima installazione d’arte permanente del Natural History Museum, Tree, nel 2009. Per celebrare i 200 anni dalla nascita di Charles Darwin, l’opera commissionata si è ispirata a un semplice diagramma tracciato sul suo quaderno d’appunti dopo il viaggio sul Beagle. Per un suo recente lavoro, Rivers (2012), installato nei terreni del Jupiter Artland Sculpture Park in Scozia, Kovats ha raccolto l’acqua di un centinaio di fiumi delle Isole britanniche e inserito i flaconi che la contenevano in una rimessa per barche appositamente costruita.

Phoebe Unwin (n. 1979, Cambridge)
Unwin è una pittrice che sperimenta con una grande varietà di materiali che includono inchiostro di china, vernici a spruzzo, colori acrilici e a olio. L’artista non parte da fotografie, ma spesso crea i suoi lavori traendoli dalla memoria o da blocchi da disegno che servono da quaderni visivi delle sue esperienze quotidiane. Le sue opere, che abbinano composizioni astratte di colori ad acqua, elementi di ritratti e nature morte minimali, comprendono Aeroplane Meal (2008), che presenta la forma riconoscibile di un vassoio in plastica reso piatto  con colore spray, disposto su uno sfondo stratificato che ricorda un tappeto fantasia o un paesaggio visto dall’alto.