violenza sulle donne

Violenza sulle donne: in Italia poche statistiche, scarse politiche

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L’appuntamento con la grande manifestazione Non una di meno è per domani sabato 26 Novembre a Roma. La marcia è stata volutamente organizzata proprio a ridosso della Giornata mondiale contro la violenza sulle donne che ricorre oggi.

Vittoria Tola, responsabile nazionale di Unione Donne in Italia che organizza la manifestazione, fa il punto sulla situazione italiana a proposito della prevenzione e della gestione di una tematica di tanta attualità come la violenza di genere. E non è una situazione consolante. In un’intervista concessa a The Post Internazionale ha tracciato uno scenario su cui c’è ancora molto da lavorare.

Le statistiche sui dati sono scarse, le politiche di prevenzione inadeguate e ancora troppo poche sono anche le politiche assistenziali mentre la giustizia rimane lenta e un’arretratezza culturale sull’argomento rende più difficoltosi i passi avanti necessari per cambiare l’atteggiamento delle persone e iniziare seriamente a fare prevenzione a partire dall’educazione.

A causa della scarsità di dati è difficile avere un quadro reale del panorama italiano e di conseguenza, continua la Tola, è difficile tracciare un profilo sia quantitativo che qualitativo della violenza sulle donne nelle sue molte forme. Spesso questa mancanza di chiarezza

“diventa un alibi per non adottare le misure adeguate in materia di prevenzione previste dagli accordi europei.”

Secondo la Convenzione di Istanbul, i paesi aderenti – e l’Italia ne fa parte essendo un trattato europeo – hanno l’obbligo di adottare le misure necessarie per assistere le donne in caso di violenza, proteggendo loro e punendo i colpevoli. Un gruppo di esperti indipendenti, sotto la sigla di Grevio (Group of experts on Action against Violence against Women and Domestic Violence) ha il compito di vigilare sulle attività dei vari stati. L’Italia cosa fa?

Insieme agli altri stati membri che hanno siglato l’accordo il nostro paese sarà chiamato a rispondere ad uno speciale questionario che analizzerà, stato per stato, statistiche precise, politiche integrate, disponibilità di fondi dedicati, formazione degli operatori, azioni della giustizia, esistenza di misure di prevenzione e assistenza.

Allo stato attuale, secondo Vittoria Tola, in Italia mancano politiche integrate capaci di rispondere al fenomeno della violenza, con differenze anche notevoli tra una regione e l’altra. Alcuni servizi sono presenti sul territorio in modo disomogeneo, senza alcuna capillarità, talvolta sono del tutto assenti.

Anche sotto il profilo educativo ci sono carenze importanti. Attualmente gli studenti di medicina, legge e scienze della formazione non ricevono adeguata formazione sulla Convenzione di Istanbul e sul fenomeno della violenza di genere dunque i professionisti di domani saranno impreparati ad affrontare il problema.

La stessa carenza si ha a livello sanitario dove non esistono ancora linee guida uniformi che forniscano a pronto soccorsi, ospedali e ambulatori un supporto univoco per diagnosticare e registrare la violenza di genere.

Il problema più radicale però si riscontra a livello culturale: la grande diffusione di pubblicità sessiste e una generale e cronica carenza nell’educazione sessuale e di genere non forniscono ai più giovani gli strumenti basilari del rispetto.

picchiare le mogli in pakistan

In Pakistan i mariti possono picchiare le mogli

picchiare le mogli in pakistan

È sempre scoraggiante scoprire situazioni in cui le donne sono ancora subalterne all’uomo e in loro completa balia, sappiamo che c’è ancora molta strada da fare verso la parità di genere e il rispetto tra i sessi ma è allo stesso tempo un moto d’orgoglio che ci pervade e ci induce a combattere con maggiore determinazione certi atteggiamenti di violenza più o meno esplicita.

È la riflessione che provoca la notizia della recente proposta di legge avanzata in Pakistan secondo cui i mariti possono picchiare le mogli, ma “leggermente.” Oltre al danno la beffa, perché la legge parla della possibilità di picchiare la propria moglie “con leggerezza” a fini educativi.

A riportare parzialmente il testo di legge è il Washington Post che sottolinea alcune delle situazioni in cui al marito sarebbe concesso picchiare la moglie: se rifiuta vestirsi secondo le norme imposte dal marito, se rifiuta di avere con lui un rapporto sessuale, se non fa il bagno dopo il rapporto sessuale o durante le mestruazioni, se interagisce con un estraneo senza il permesso del marito o se parla a voce troppo alta.

Una legge che incoraggi la violenza sulle donne, normando addirittura tutti i casi in cui questo uso (e abuso) è non solo concesso ma tutelato, è un passo indietro che vanifica le molte lotte che le donne pakistane, e le donne di tutto il mondo, hanno condotto per decenni per acquisire una dignità che le sottragga all’ingerenza costante del marito e degli altri uomini della propria famiglia in ogni ambito della propria vita pubblica e privata.

Per rispondere a questa assurda proposta di legge il fotografo Fahhad Rajper ha scelto di ritrarre le donne pakistane moderne, indipendenti e fiere, che fanno il lavoro che hanno scelto e posano con uno sguardo aperto e pronto a sfidare una legge inaccettabile.

Il giovane fotografo ha scelto di dire no alla proposta avanzata dal Consiglio islamico con un progetto che dia voce e volti alle donne contempoanee di un paese che vuole svincolarsi dai legacci di un passato asfittico che rischia di soffocare il loro presente.

Nasce così la campagna #TryBeatingMeLightly, letteralmente “prova a picchiarmi con leggerezza”, con 12 ritratti in bianco e nero accompagnati dai commenti delle donne che hanno posato e sbeffeggiato a modo loro una proposta di legge considerata ridicola oltre che del tutto lontana dal vero spirito dell’Islam:

“Picchiami con la tua intelligenza, se puoi. Picchiami con il tuo spirito. Picchiami con il tuo sorriso. Picchiami con la tua gentilezza. Ma se hai il coraggio di picchiarmi anche solo con una piuma, sarò costretta a reagire. Con l’amore.”

Così Sadiya Azhar, una delle donne ritratte negli scatti, ha deciso di rispondere alla provocazione del Consiglio dell’idelogia islamica che vigila sulle leggi emanate dal governo in modo che non contrastino con la legge islamica. In questo caso però lo fa incentivando e legalizzando la violenza domestica.

Photo Credits | Golfmhee / Shutterstock.com

Athena gadget anti stupro

Athena, il gadget anti stupro

Athena gadget anti stupro

Athena è il nome di un nuovo progetto che si propone di dare allo donne uno strumento per difendersi dalla violenza sessuale. Nasce come gadget anti stupro dall’idea di Roar for Good, una piccola azienda formata da Yasmine Mustafa e Anthony Gold che hanno lanciato il loro progetto su IndieGoGo. Sono riusciti a raccogliere in sole 48 ore tutti i fondi necessari per la produzione di Athena che sarà commercializzato a partire dal prossimo Maggio.

L’idea è venuta a Yasmine di ritorno da un viaggio in solitaria in Sud Africa dove non si è sentita sempre sicura nella sua condizione di donna sola e ha ascoltato moltissime storie di violenza sulle donne. Una volta rientrata a casa, è venuta a sapere che durante la sua assenza anche una vicina di casa era stata assalita e stuprata proprio lì dove credeva di potersi sentire più al sicuro. È nata così la volontà di dotare le donne di uno strumento per chiedere aiuto in tempo reale.

Athena è praticamente un pulsante da indossare, con una clip o come ciondolo, che basta pigiare per pochi secondi. Parte così un forte allarme sonoro che richiama l’attenzione mentre contemporaneamente si invia ai propri contatti di emergenza un messaggio con la posizione esatta di dove ci si trova, in modo da essere localizzate immediatamente. Volendo si può disabilitare l’allarme sonoro mantenendo però il messaggio di allarme inviato ai propri contatti selezionati.

A differenza di altri dispositivi di auto-difesa, è sicuro per chi lo usa e non può essere utilizzato contro di sé in caso l’assalitore ce lo sottragga, come nel caso degli spray al peperoncino o di armi più o meno lecite. Inoltre passa tranquillamente tutti i controlli di sicurezza anche negli aeroporti.

“Le donne,” dice Yasmine, “hanno paura di usare strumenti di autodifesa perché non vogliono trovarsi a dover gestire anche una colluttazione.”

Inoltre Athena si può utilizzare per segnalare le aree a rischio in modo che le donne possano sapere quali zone evitare quando si trovano da sole.

Qualcuno ha già obiettato che un allarme non risolve in alcun modo il problema della violenza sulle donne eppure finché le donne avranno bisogno di difendersi da sole è probabile che proprio un allarme possa salvarle da un abisso di dolore e disperazione. I fondatori di Roar però tengono a precisare che:

“vogliamo andare alla radice del problema e per questo motivo abbiamo avviato una collaborazione con organizzazioni che si occupano dell’educazione dei giovani al rispetto e all’empatia, in modo che produrre un cambiamento culturale positivo.”

Il 10% dei proventi delle vendite del gadget anti stupro andranno infatti a queste organizzazioni, per supportarne il lavoro. Intanto Athena è già stato pre-ordinato da migliaia di donne in 20 paesi del mondo. Evidentemente era qualcosa di cui si sentiva il bisogno.

amnesty contro le spose bambine

Amnesty contro le spose bambine

amnesty contro le spose bambine

Amnesty International Italia lancia la nuova campagna contro le spose bambine per protestare contro i matrimoni precoci e forzati a cui sono obbligate le giovanissime donne, negando loro l’infanzia, in molti paesi del mondo.

Ogni anno, secondo una stima del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, sono 13 milioni e mezzo le ragazze costrette a prendere marito prima dei 18 anni. Gli uomini sono sempre molto più vecchi di loro. A 37.000 bambine al giorno – un dato spaventoso – viene negato il diritto ad essere tali, divenendo spose e spesso madri loro malgrado.

Per dire basta e proteggere le bambine dai matrimoni forzati e dalla violenza che ne deriva, Amnesty ha lanciato una campagna di sensibilizzazione e raccolta fondi partita il 18 Ottobre e attiva fino al prossimo 1 Novembre.

Il margine di intervento in questi caso è molto limitato, perché le bambine vengono isolate e perdono ogni libertà, allontanate come sono da famiglia, amici e qualunque sostegno sociale (in molti casi del tutto inesistente) e dunque soggette ad ogni genere di violenza e abusi. Molte di loro restano incinte e partoriscono quando sono ancora soltanto bambine.

Tra i personaggi pubblici che sostengono la campagna ci sono Antonella Elia, Chiara Galiazzo, Giovanna Gra, Dacia Maraini, Simona Marchini, Veronica Pivetti, Marina Rei e Sveva Sagramola. Attraverso testimonial importanti e un impegno che deve essere di tutti si tenta di portare alla luce un problema che ha forti radici nella povertà e nell’arretratezza culturale, da cui è difficile emanciparsi. Accrescendo l’attenzione del mondo sul problema, si tenterà quindi di richiamare anche l’attenzione dei governi dei paesi in cui la pratica è comunemente accettata affinché vengano prese le idonee misure per eliminarla.

Il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite è attivo dal Luglio scorso in questa battaglia per l’eliminazione dei matrimoni precoci e forzati e ha emamanto una Risoluzione che invita i governi e le società a monitorare e impedire questo fenomeno. Ma non è sufficiente e basta sentire le storie delle ragazze costrette a sposarsi da bambine per capire che c’è ancora molta strada da percorrere.

In moltissimi casi le donne intervistate, in ogni angolo del mondo dove la pratica del matrimonio precoce è diffusa, hanno dichiarato di essere state contrarie alle nozze e di aver subito violenza e abusi da parte degli uomini che le considerano una proprietà, che si tratti dei loro padri o dei loro mariti. Le famiglie accettano queste pratiche e si rifiutano di fornire aiuto alle figlie, che non di rado vengono letteralmente vendute al marito.

In Yemen vengono concesse in sposa bambine di appena 8 anni. Le ragazzine siriane rifugiate in Giordania vengono spesso date in sposa a giordani che visitano il campo rifugiati di Zaatari in cerca di bambine da sposare.

Anche in Iran le donne sono puntualmente vittime di abusi perché considerate subalterne rispetto agli uomini in materia di matrimonio, divorzio e custodia dei figli. L’età legale per il matrimonio è di 13 anni ma possono essere concesse in sposa anche a età inferiori, se il tribunale concede un permesso, cosa che accade spesso. Anche in Burkina Faso la situazione è simile, le ragazze si sposano a 11 anni con uomini che hanno da 30 a 50 anni più di loro.

E se il Mahgreb sta via via facendo qualche passo avanti in questo senso, non è così nelle zone meridionali dell’Asia dove il 46% delle ragazze è costretto sposarsi prima dei 18 anni. Il Bangladesh è il paese che, secondo l’Unicef, ha il più alto tasso di matrimoni di bambine sotto i 15 anni. In Afghanistan, addirittura, dati del 2004 hanno rivelato che il 57% delle donne intervistate si era sposata prima dei 16 anni e in qualche caso a 9 anni.

Photo | Thinkstock

Perché le cose tenere ci fanno diventare aggressive

le cose tenere ci fanno diventare aggressive

Vi siete mai domandate come mai quando vedete qualcosa di molto tenero vi viene voglia di strizzarlo fino a fargli male? Ce lo spiega la scienza, che ha scoperto il motivo per cui tenerezza e aggressività vanno spesso a braccetto.

La scena è quella che sperimentiamo spesso in prima persona: un animaletto soffice e buffo, le guanciotte morbide di un bambino che ci sorride, la dolcezza di un oggetto che ci fa esclamare “che carino!” (o, a seconda delle latitudini, kawaii o cute e via discorrendo). Perché ci fa tanta tenerezza da poterlo persino farlo a pezzi?

Vi sarà capitato di sentire, o magari di dire personalmente, frasi del tipo “è così bellino che me lo mangerei” oppure “è così morbido che ho voglia di strizzarlo da morire.” Ebbene, per tutto questo c’è un fondamento scientifico, non sono solo modi di dire per enfatizzare a parole una sensazione.

Una ricerca condotta dalla Yale University ha esplorato questo fenomemo pubblicando i risultati sulla rivista scientifica Psychological Science. L’esperimento ha analizzato la reazione delle persone ad una serie di stimoli ad alto tasso di tenerezza.

Lo studio ha rivelato che le persone che hanno reazioni estremamente positive davanti a foto di bambini piccoli mostrano sul volto espressioni molto aggressive. Le stesse reazioni aggressive si manifestano nel comportamento violento quando osservano foto di cuccioli di animali.

Oriana Aragon, una delle scienziate coinvolte nel progetto, ha spiegato che per molte persone è un fatto comune esprimere con emozioni contrastanti quello che provano: per esempio piangere di gioia, ridere quando si è nervosi o spaventati, oppure – e torniamo a noi – diventare aggressivi per colpa di una immensa tenerezza.

Queste reazioni sono indispensabili per mantenere l’equilibrio delle funzioni emotive, bilanciando con un’emozione opposta quella che in uno specifico momento sovrasta tutte le altre. Attenzione solo a cosa, o a chi, vi trovate ad avere per le mani quando vi capita di sentirvi sopraffatte da un impeto di grande tenerezza.

Photo | Thinkstock

#polishedman

#polishedman: perché gli uomini si smaltano le unghie sui social

#polishedman

Negli ultimi giorni sui social media si assiste ad uno strano fenomeno che un hashtag contribuisce a spiegare: #polishedman è un movimento social che parte dagli uomini e gli uomini coinvolge in un battage che acquisisce forza dalla sua diffusione e ha lo scopo di sensibilizzare le persone sui temi della violenza sui bambini.

Su Twitter, Instagram, Facebook si vedono apparire uomini con le unghie smaltate che proprio per la bizzarria di queste immagini inattese attirano l’attenzione sul messaggio che vogliono comunicare. L’iniziativa si è sparsa rapidamente in tutto il mondo ma è partita da Elliot Costello, amministratore delegato di Ygap, un’organizzazione che si occupa di aiutare comunità disagiate ad affrancarsi dalla povertà.

La portata dei social media come sempre amplifica moltissimo la più piccola delle battaglie, sempre che il messaggio di fondo sia di valore. In questo caso lo è, per quanto venga proposto in un modo che non ci saremmo certo aspettate: gli smalti di solito sono nostro appannaggio quasi esclusivo e ci sorprende (ma positivamente) vedere come gli uomini abbiano scelto di utilizzarlo per attirare l’attenzione.

Secondo le stime, 1 bambina su 4 e 1 bambino su 5 sono vittime di violenza prima di raggiungere l’età di 19 anni, dice Costello in un’intervista ad Huffington Post, e continua:

“La maggior parte di queste violenze è commessa da uomini. È dunque importante che gli uomini si assumano la responsabilità di cambiare le cose.”

La campagna è partita il primo Ottobre e proseguierà fino al 15. Agli uomini che vogliono partecipare viene chiesto di smaltare un’unghia della loro mano e mostrarla sui social media, accompagnandola al messaggio. È stata lanciata anche una raccolta fondi da devolvere ad associazioni che si occupano di sostegno all’infanzia.

Ma da dove salta fuori l’idea di dipingersi le unghie? Da un’esperienza personale di Costello in Cambogia, dove si trovava per lavoro. Ha avuto occasione di parlare a lungo con una ragazza dalla storia difficile di nome Thea, maltrattata in orfanotrofio proprio dalle persone che dovevano proteggerla. Prima di congedarsi, la ragazza gli aveva smaltato un’unghia di blu e Costello se n’è servito come simbolo per la sua nuova battaglia.

Photo Credits | Twitter

contro la violenza sulle donne

In Argentina un tweet contro la violenza sulle donne

contro la violenza sulle donne

In Argentina la rivoluzione contro la violenza sulle donne comincia con un tweet. È quello di Marcela Ojeda, una giornalista radiofonica che ha intervistato spesso le famiglie di donne uccise da mariti, fidanzati, amanti ed ex.

La giornalista sa bene che femminicidio è solo una parola diventata di moda, usata per definire qualcosa che accade più spesso e da più tempo di quanto non si sappia o non si ammetta. Per questo ha scelto di lanciare su Twitter una campagna di sensibilizzazione che sta dilagando in tutto il mondo.

L’hashtag #NiUnaMenos è partito lo scorso 11 Maggio con il primo tweet arrabbiato della giornalista argentina che ha lanciato un allarme già noto ma mai troppo spesso sottolineato: “They’re killing us.” Grazie alla vasta eco raggiunta, il 3 Giugno scorso è stata organizzata una marcia pacifica per le strade di Buenos Aires e da lì le proteste si sono diffuse anche ad altre città del paese.

Il tag è diventato presto virale e nel giro di poche settimane la partecipazione, sia fisica che virtuale, è diventata imponente. Le statistiche d’altronde sono scioccanti, ogni giorno troppe donne muoiono per mano di un uomo che le aveva amate o aveva detto di amarle.

L’omicidio di una donna da parte di un uomo è qualcosa che prescinde la sua definizione recente eppure l’uso del termine femminicidio, per quanto sgradevole appaia a molti, ha anche un valore politico: stabilisce il riconoscimento sociale di una violenza di genere da affrontare come tale.

In alcuni paesi essere una donna è più pericoloso che altrove, non esistono tutele legali contro lo stalking e c’è una cultura della sottomissione femminile che rende più difficile ribellarsi e portare alla luce i casi di violenza privata. La Rete però ci ha dato una nuova voce che possiamo sfruttare per difenderci e difendere le donne più deboli, amplificando la loro voce. Può dunque un tweet cambiare le cose? Sì, e se non le cambia ha il potere di avviare un cambiamento o almeno un dibattito.

Photo Credits | Artem Furman / Shutterstock.com

Weapon of choise, il progetto del fotografo Richard Johnson contro la violenza verbale

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La violenza verbale è invisibile: non lascia segni e può far male quanto un pugno. Per questo il fotografo americano Richard Johnson ha deciso di rappresentare il dolore che può essere generato da alcune parole, raccogliendo tutti gli scatti nel progetto Weapon of choice ovvero L’arma della scelta.

Per la realizzazione del progetto, Johnson ha chiesto ai protagonisti – bambini e genitori – di scegliere, da una lista, le parole che provocavano maggiore sofferenza e che avevano forte impatto emotivo sulle loro vite. I make up artist hanno così provato a  ricreare quelle offese sulla loro pelle, attraverso disegni di ferite,  ustioni e contusioni.

Gli organizzatori si sono ritenuti soddisfatti del lavoro di Johnson, aggiungendo di aver dato vita a tale iniziativa per aumentare la consapevolezza dei problemi legati alla violenza verbale , ma anche verso quella fisica che molto spesso è generata dalla prima.

Alcune foto del progetto Weapon of chiose di Richard Johnson contro la violenza verbale

Abbiamo scelto il nome Weapon of Choice perché anche usare le parole che fanno male è una scelta. E mentre ascoltavamo le storie dei partecipanti, abbiamo scoperto che molto spesso, all’abuso verbale, segue quello fisico. Le parole violente sono solo una delle armi a disposizione nell’arsenale di chi aggredisce, ha commentato il fotografo americano.

Weapon of Choice

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Foto | impactforwomen.org.au